Avevo 4-5 anni mi vien da dire.
Forse qualcuno di più, toh, 6 anni.
Ricordo la Brigida, donna mi pareva vecchissima, vestita di nero, dai modi gentili con un marito duro e cattivo da cui noi bambini stavamo distanti.
Ricordo di lei che impastava il pane e per noi bimbi, quando le restava poca pasta per un pane ancora, dava forma a colombine, piccoline, ben fatte. Tutto veniva poi messo nel forno della Corte, forno comune che alcuni usavano molto, più di altri.
Alla fine della cottura, da noi sospirata, spiata, attesa, ci dava le colombine fumanti, dorate. Era pane ma a noi, a me, parevano dolci, solo per la forma così diversa dall’usuale.
Era gentile, umile e silenziosa. Le prendeva dal marito, lo sentivo dire allora ma troppo piccola per capire.
Di lei ricordo anche le tortine che sagomava coi fichi . In estate, quando maturavano tutti insieme e non si poteva mangiarli tutti, il suo istinto parsimonioso la spingeva a toglier la buccia , unire il sugo dolce e pastoso del fico, a dare una forma di schiacciata tonda.
Poi metteva ad essiccare su una tavola di legno, esposta al sole. Anche agli insetti vari per la verità. Ma allora non c’erano i Nas, i Nocs, le regole igieniche che regolano ora ogni nostro gesto.
Quando era passato un tempo sufficiente perché diventasse secca così da conservarsi a lungo, noi, che andavamo ogni tanto a chiederne un pezzetto, finalmente potevamo mangiarne un po’.
Poca roba: nutriente, dolcissima, secca, buona, una leccornia.
Che la Brigida distribuiva con gelosia quasi, con misura.
Ma erano tempi di vacche magre. Tutto era prezioso. Quella tortina poteva essere companatico per giorni poveri.
E poi la ricordo ancora davanti al camino acceso, con l’attrezzatura per tostare il caffè. Operazione lunga, preziosa, misurata, nei gesti e nelle dosi.
Quando aveva visite, tostava il caffè che a casa io non ricordo di aver visto, allora. Il profumo esalava dintorno, usciva in Corte, mi spingeva ad entrare in quella casa che ricordo cupa e poco attraente, per vedere lei, vestita di nero, con le vesti lunghe, seduta su uno sgabello , dedita alla tostatura.
Poi non è che io bevessi il caffè. Assistevo solo alle operazioni di preparazione. Usava poi la cogoma, la cuccuma napoletana che guardavo con brivido quando, con gesto deciso e secco, la rovesciava così che l’acqua calda scendesse nella polvere macinata di fresco. Senza spandere niente, senza scottarsi. Una meraviglia mi pareva. E poi usava il servizio migliore, chicchere piccole, e versava l’aromatico caffè con un po’ di zucchero bianco, prezioso come oro.
Io guardavo ammirata.