Nonna Elvira era una signora che andava per case a dare una mano quando i figli erano piccoli e i genitori lavoravano entrambi.
Avrà avuto allora 60 anni circa.
I bambini la chiamavano Nonna Elvira. Era la terza nonna per loro. Veniva dalla Valsugana.
Quando si era sposata con un uomo della valle, era andata in Francia con lui, faceva il carbonaro. Quello il loro viaggio di nozze.
Raccontava che vivevano in una capanna fatta di tronchi e prendevano l’acqua per bere e lavarsi da un torrente vicino.
Pensa: lontano da casa, giovani, ignari della lingua, lontani dai centri abitati, da ospedali e medici, come facevano per ogni evenienza?
Ora noi ci muoviamo se abbiamo a portata di mano ospedale, negozi, cellulari e caricatori. Non sappiamo vivere isolati.
A quei tempi mancava ogni certezza. Per questo forse nei cuori albergava un senso di fatalità, di provvidenza così radicato.
Bisognava contare su Dio soltanto, era lui l’ancora della salveza, fidarsi e basta.
E il resto, le disgrazie e le disavventure, andavano messe in conto e “ accettate “ come inevitabili.
Poi l’uomo si è sentito sempre più forte, capace, potente e ha messo da parte Dio.
Ora confida solo in se stesso.
Torniamo a questa giovane coppia che viveva come nelle fiabe di secoli addietro.
Quando la pancia cominciava a crescere, la donna tornava a casa, se poteva, la coppia si separava: l’uomo restava nel bosco a bruciare legna per fare carbone, la donna tornava per crescere famiglia.
Lavoro stagionale dal quale il marito rientrava ogni 6 mesi circa e la distanza e la lontananza crescevano il desiderio della donna e dell’uomo, di stare assieme.
E non c’erano metodi anticoncenzionali, non almeno approvati dalla chiesa.
Nella frazione dove viveva c’erano solitamente vecchi, donne e bambini.
Le donne erano le uniche lavoratrici, per forza. Dovevano pensare loro a tutto: coltivare i magri campi, piantare e raccogliere patate, seguire, “ guernare”, come se dixea, la bestie rento a la stala, fare el formajo, el butiero, far da magnare, tirar su toxeti de tante età. Dar na man ai veci.”
Nar xo in paese in Valsugana a piè, longo on sentiero ripido, carghe de mercansia da baratare.
Sacchi pieni andando xò, sacchi pieni da portar sù, magari col pancione da sette mesi.
Se nevicava restavano isolati da tutto: medico, prete e ostetrica, le uniche persone cui chiedere aiuto.
Nella valle veniva coltivato anche il tabacco. Anche su per il monte, so le maxiere.
La finanza era molto severa: andava nei campi a contare di ogni pianta le foglie, all’inizio e in prossimità del raccolto, per capire se qualche coltivatore rubava roba dello stato, su cui si doveva pagare dazio.
Pur con la paura, la fame era tanta, venivano staccate delle foglie, scelte con cura e nascoste in buche scavate nel terreno. Da lì venivano poi prelevate e portate a vendere. Era la loro fonte di gudagno in nero, il loro extra che” ghe permetea de vivare.”
Le donne , anche la Elvira, salivano sul treno dirette a paesi di pianura prossimi a Venezia e a Treviso, dove abbondavano i campi di frumento.
Salivano in treno che sembravano tutte incinte.
Sotto le lunghe e larghe gonne nere, avevano una cintuta legata attorno alla vita cui avevano appese le foglie di tabacco.
La finanza a volte subodorava che sotto tutto quel volume non ci stava solo ciccia però potevano essere davvero incinte quelle donne dalla larga circonferenza e non avevano il coraggio di metterci le mani per saperne più.
O forse chiudevano un occhio, intuivano ma faceno finta di non sapere, di non capire.
Così le donne andavano alla pianura a barattare tabacco con farina di grano.
Tornavano coi sacchi pieni che si sarebbero portati su a spalla lungo l’erto sentiero, con la febbere addosso.
La nicotina sulla pelle nuda provocava reazioni di questo tipo.
Ma tornavano contente: per un po’ di tempo avevano di che sfamare vecchi e bambini.
Qui le tenerezze di coppia che noi ora conosciamo e che “ pretendiamo” siano presenti in un rapporto d’amre, allora non esistevano, c’era magari il rispetto ma anche una burberità, un pudore, nel dire e manifestare sentimenti e desideri.
Anche il modo di esprimersi sarebbe ora da brivido, visto dal punto di vista femminile.
“ Vien dona che te doparo”.
Era un modo per invitarla a fare l’amore e non c’era mancanza di rispetto nel dire questo, la frase non veniva detta per offendere, non si usava la parola “ amore” e quel linguaggio rispecchiava comunque l’idea che c’era allora di donna: la “femena” era sottomessa al marito. Punto e basta.
Da lì allora anche tante lotte femministe. Che hanno cambiato di poco la mentalità però.
La violenza nella coppia si può dire che sia cresciuta in frequenza ed efferatezza.
La donna è ancora strumento nelle mani dell’uomo e lo è anche per sua responsabilità, per vanagloria, per apparire, per successo facile.
Invece di crescere nella stima e nel rispetto della pari dignità nella profonda diversità di uomo e donna, si è cercato di previcare il maschio, cercando di imitarlo nel modo di agire, nel lavoro , nelle professioni.
Quando uomo e donna sono complementari e la loro diversità è fonte di richezza, non qualcosa da omologare.
Erano tempi duri quelle delle nostre trisavole ma alla fine più rispettosi della vita e delle persone.
E tutto era permeato da una presenza del divino che dava senso anche agli eventi duri, dolorosi e incomprensibili che attraversavno le vite di allora.
Tanti figli, tanta asciuttezza di rapporti amorosi, tanto non detto di ciò che albergava nell’intimo…
Quanti disagi psicologici dovevano esserci?
Forse però sono più gravi e diffusi oggi. Perchè?
Mancano certezze, radici solide, lezioni dure della vita che insegnava, loro malgrado?
Un altro tempo, lontano non 100 anni, secoli e secoli eppre di quel mondo nelle parole di Elvira che racconta c’è tanta nostalgia.
Che dire? La storia di questa donna rappresenta la vita dei più in quegli anni e chi ha avuto la fortuna di avere vicino nonni o genitori vissuti nonostante la povertà riconosce il dolore ma anche la forza d’animo la resilienza di queste che sono le nostre radici la nostra memoria