Quando non esisteva la raccolta differenziata

Ho ricordi di molti anni fa, quando ancora non esistevano i “  rifiuti”, quelli che ora mettiamo fuori ogni giorno: umido, secco, carta , plastica, tossici e ingombranti.

Tutto veniva riciclato spontaneamente per un diffuso e congenito senso del risparmio.

La carta: era poca quella bella bianca dei quaderni, non esistevano risme in giro per casa, non perlomeno nella mia. Guai a staccare le pagine dal quaderno se vi erano cancellature, il rischio era di perderne una seconda, quella opposta visto che erano quaderni con le pagine doppie fissate con punti metallici.

Gli album da disegno poi erano sacri, costavano tanto, quindi si disegnava leggero, con un filo di matita rafforzato solo quando si era ben certi che quel disegno era il migliore possibile che si riusciva a fare.

Per non cancellare. Sarebbe stato brutto a vedersi e per non buttare via un foglio di preziosa carta da Fabriano.

Esisteva la carta marrone che avvolgeva pacchettini di spesa del salumiere, in alternativa poteva essere di un “ blu aviatore”. Ma era per forze di cosa spesso unta e dunque non riciclabile.

Cosi veniva buttata nel fuoco per accenderlo o alimentare la fiamma in via di spegnimento.

I quotidiani non erano “ quotidiani” perché il giornale entrava in casa di rado. Quando c’era veniva letto fino ad essere sviscerato, poi poteva anche questo servire per il fuoco o conservato ripiegato e impilato per avvolgere un giorno qualcosa.

La carta di giornale assorbiva l’umidità , era utile.

I libri erano pochi, quasi solo scolastici, tenuti in ordine, avvolti in carta marrone da pacchi, un po’ leggera, e più tardi in copertine di plastica. Finito l’anno scolastico si cercava di venderli a meno che non ci fossero fratelli minori cui potevano servire.

La carta quindi non esisteva come rifiuto: era preziosa, rara, usata con attenzione e parsimonia e solo alla fine della sua storia , bruciata.

L’umido? Nemmeno una traccia. Le foglie scartate dell’insalata raccolta dall’orto finivano dritte nel pollaio o nella conigliera. Così pure ogni altro pezzo di ortaggio che non fosse commestibile.

Avanzi di cibo andati a male? Mai.

Con tutta la fame che nonni e genitori avevano patito quello che veniva messo nel piatto “ doveva” assolutamente essere mangiato. Tutto in nome dei bambini che in giro per il mondo ancora morivano di fame. E non esisteva cibo che potesse essere rifiutato “ perché non piaceva”. Si doveva farsi piacere ogni cosa perché era comunque una grazia di Dio.

Gli eventuali resti non commestibili, come gli ossicini del pollo e roba simile, venivano raccolti alla fine del pranzo in un piatto e dati al gatto di turno o al cane della corte.

Se per caso ancora persisteva qualche avanzo, irrecuperabile anche per galline e conigli, veniva gettato nel campo a mo’ di concime.

Il compost si faceva così, naturalmente, senza particolari ricette, col buon senso che albergava in ogni persona.

E il vestiario? Era poco, essenziale, spessissimo riciclato, non seguiva le mode, passava di padre e madre in figlio, sorella e fratello, zii e cugini.

Anzi, più storia aveva alle spalle più era prezioso. In ogni casa esisteva un armadio, uno sgabuzzino, una cameretta in cui si accumulava ogni specie di materiale da abbigliamento: maglioni e cappotti, gonne e calzoni, camicie e palandrane. E lana… gomitoli fatti e rifatti di maglioni preesistenti e disfatti per ricostruire gomitoli bicolori con cui, ferri alla mano, dar vita a una maglia nuova.

Di colori assai poco gradevoli: marrone, rosso bordò, verde bottiglia, grigio, qualche traccia di bianco, di azzurro.

E pure le scarpe ben pulite, riempite di carta, venivano sistemate in scatole impilate. Non si sa mai che prima o poi servissero a qualcuno.

Nonostante le pieghe per la storia vissuta su altri piedi e che si facevano sentire quando le indossavi. Ma sopportato il fastidio inziale, si adattava poi anche al tuo piede e cominciavi a portarle pure tu.

Quindi niente sacchi di vestiario per la caritas. Tutte le famiglie o quasi erano da caritas.

C’era del materiale che non sempre si riciclava e quello veniva accumulato per quando fosse passato, di corte in corte, l’uomo che gridava dal suo carrettino legato alla bici : “ Osi, strase e fero vecio!”.

A quell’uomo veniva presentato ogni oggetto che non avesse potuto godere in casa di una seconda o terza vita e poteva così far entrare qualche monetina. Che non era mai troppa.

Fino a un giorno in cui, quasi dal nulla, in modo subdolo e silente, cominciarono a presentarsi la lattina d’alluminio, la plastica dando vita alle prime discariche abusive: lungo i canali, le roste, le valli e in qualche angolo nascosto di campo.

La plastica fu vista al suo arrivo come una manna: cominciarono a passare per le corti camioncini guidati da ometti ben vestiti. Scendevano e pubblicizzavano l’utilità dei secchi di plastica, leggeri, di lunga eterna vita, non necessitavano di lucidature come i secchi di rame. Le donne cominciarono ad uscire dalle case portando paioli e secchi e “case par lacoa”: rame in cambio di plastica nuova e fiammante.

Apparirono i primi mobili da cucina in PVC: giallini, bianchi, lavabili, senza tarlature, leggeri e duraturi. Vennero scambiate belle madie da cucina. Mobili che avevano seguito nelle cucine più generazioni mostrando certamente le ferite dei tarli, ma solidi e fatti a mano, vennero dati via con ignoranza e insipienza.

Vuoi mettere un mobile di serie, senza sbavature in confronto a una credenza imperfetta fatta a mano?

Passarono più volte i ciarlatani a infinocchiare la gente ignorante che svuotò le case di tanti mobili, anche quelli vecchi e messi in soffitta in cambio di oggetti plasticati.

Qui si creò il primo evidente spartiacque tra la cultura contadina che aveva resistito per secoli e l’era del “ progresso tecnologico”.

Quando la gente scoprì l’inganno era troppo tardi.

La plastica, utile per certi aspetti , divenne invasiva perché indistruttibile.

I vestiti di viscosa e fibre sintetiche cominciarono a puzzare in modo nuovo per il sudore, non lasciavano la pelle libera di traspirare, causando caldo d’estate e lasciandoti al freddo d’inverno.

Il lino, la seta, il cotone vennero rimpiazzati da materiali colorati, leggeri, in gonne e camicie non più “ fatti su misura” , a smussare difetti di fisico e di postura, creati dalla sarta del paese. Ora il vestiario era “ per la persona media”. Donne e uomini tutti “ uguali” , tutti perfetti, tutti standard.

In qualche taglia “ci rientrava ” ognuno di noi.

A proposito di rifiuti: perfino i ritagli delle sartine venivano riciclati per riempire cuscini , meno pregiati certo di quelli fatti con le piume dell’oca del cortile ma pur sempre morbidi.

E finalmente vennero le discariche, anche quelle tossiche, di medicinali scaduti, di contenitori di veleni per trattare coltivazioni, e l’aria si ammorbò, anche quella di campagna.

Come la terra che si trova a lottare per la sua stessa sopravvivenza.

Dimmi cosa ne pensi, te ne sarei grata.

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