La giardiniera

Passò il tosaerba ancora una volta.

Il terreno era disuguale, presentava solchi lasciati dalle scorrerie dei cani, mai più colmati.
Le radici della siepe di lauroceraso si erano fatte grosse e lunghe, spuntavano qua e là dal terreno come dita fameliche.
Eppure il prato conservava il suo fascino.
Ne conosceva ogni angolo, ogni erba, ogni pregio e ogni difetto.
Le piante erano state messe a dimora un po’ alla volta.
Alcune esistevano già quando lei era arrivata,ma molte altre avevano preso vita proprio con lei.
Il melograno, l’albero della vita,
il piccolo virgulto era cresciuto nonostante la posizione ingrata.
Gliela aveva donato un amico, non certo della riuscita del trapianto. Difficile sradicare un getto senza rovinare le barbe.
E aveva trovato posto in una una striscia di terra a nord, a ridosso quasi di una casa.
Il margaragno ama il sole e invece qui poca luce, però metteva frutti lo stesso.
Maturavano in ritardo, fioriva tardi, ma i frutti erano grossi, dolci e sugosi. Una qualità speciale.
Forse era coccolato dalle ortensie che gli crescevano attorno?
In primavera grondavano bellezza, fiori colmi azzurri rosa dalle mille sfumature, un muro di colore!

E le calle, quel fiore elegante,
copiato e ricopiato sugli album da disegno quando era ancora ragazzina!
Come rendere sul foglio bianco il candore, il nitore di quell’unico lembo avvolto su se stesso in una incompleta spirale?
Ora erano presenti in più punti lungo i muretti, all’ombra, al sole, ovunque avevano attecchito e non morivano mai, nemmeno nei freddi invernali.
Appena luce e umidità permettevano, sbocciavano foglie giganti e già a inizio primavera era un giubilo quel denso verde da cui uscivano slanciati steli.

I rosai invece li aveva messi per la Nonna, innamorata delle rose
che voleva solo ammirare, odorare,
al massimo metteva un lungo gambo in un vaso laccato di nero, stretto, adatto proprio a contenere un solo fiore.
Fiore per donne, fiore per signore d’ogni tempo e d’ogni età.
Le rose sbocciavano, fiorivano, appassivano sulla pianta, ornamentali per l’occhio e per l’anima,
da lasciare là dove erano nate.

C’è poi quell’angolo ombroso ove fronde di alberi diversi
si intrecciano: un oleandro, gigantesco ormai, svetta sopra la casa.
Porta il profumo amarognolo di mandorle di estati calde e lunghe. I petali donano nuova vita al prato, cadono ormai appassiti ma sul verde spiccano come fiori senza stelo, fiori poggiati sul manto, una meraviglia!

Clerodendri a iosa ombreggiano il cortile!
Han la chioma larga e folta, quasi un ombrellone, d’estate donano frescura senza togliere luce, d’inverno lasciano respirare il giardino, le sue larghe foglie
cadono, tappezzano in anticipo il prato, ancor prima che il gelo stacchi le foglie.

Due sono stati piantati stretti stretti, vicinissimi, per sperimentare lungo la crescita quella fusione tra tronchi
riportata in qualche libro di scienze come un fatto da meraviglia.
Non sono ancora fusi, lo saranno tra pochi anni, sono cresciuti e le loro chiome sono davvero
due ombrelli affiancati.
E’ un albero molto ornamentale, sembra fiorire due volte:
a primavera e a tarda estate quando, ormai maturi, restano gli ovari blu circondati da “ petali” color cardinale.
Fiori e frutti in abbondanza, che cadono e fan crescere una miriade di piantine nuove.
Ha uno strano odore la sua foglia, non buono, non cattivo, un odore quasi di panificazione. Tipico.

Ci sono poi quei tre cespugli di forsythia,
fioriscono strepitosi nei bui mesi di fine inverno, sembra abbiano dentro sé lampadine accese, tanto sono brillanti
i gialli fiori. Allungano le braccia al cielo,
quasi a invocare luce, primavera.
Dislocati a nord, a ovest, a est, illuminano il cortile e
donano allegria. Promessa di vita ancora e gioiosa.

Li vicino ai cancelli si attorcigliano i rami di un Rincospermum o gelsomino, un muro di foglie e fiori.
A primavera, ma fino a estate inoltrata, se non lo potasse, sarebbe un cuscino denso e morbido e profumato.

Lo sguardo va a un tronco, poco ornamentale, lungo la siepe.
Tanto caro al suo cuore.
E’ nato da un seme impiantato dalle sue mani. Una leguminosa.
Il baccello glielo aveva regalato la sorella, lei lo aveva aperto:
duri semi quasi neri erano apparsi.
Li seminò nell’orto, molti anni fa, una trentina forse, della prima casa. Poi dimenticato.
Un giorno si era accorta di una strana nuova pianta mai vista prima.
L’aveva lasciata crescere per identificarla una volta cresciuta.
Era nato un Calicanto. Fiori pallidi sui rami ancora spogli, spargevano un profumo penetrante.
Così, al momento del trasloco, l’aveva portata con sé.
Non era certa che avrebbe gradito il nuovo ambiente.
Ora è un albero dal fusto eretto e molto ramificato.
Attende i suoi fiori nei grigi giorni umidi di gennaio, fiorisce tradivo ma abbonda di profumo
e ripaga dell’attesa apparentemente silente.

Sì, il giardino le aveva insegnato il valore dei tempi lunghi dell’apparente ozio, del silenzio, del letargo, della quasi morte.
Dopo mesi trascorsi senza accadimenti, ecco germogliare una pianta data per spacciata, un fiore là dove non avevi seminato, tutto tornava a vivere in modo nuovo, mai uguale.
Un ciclo la vita e mai ripetitivo!

Anche i vasi infatti, che sembravano terriccio abbandonato, nella giusta stagione lasciavano apparire nuove piante.
Aveva imparato a non scartare i semi, di nessun frutto, li lasciava cadere a terra qua e là, o dentro un’aiola o un vaso.
Quel giardino era un semenzaio, in sé conteneva germi di tante vite e lo sapevano anche i merli, i pettirossi e i luì, le farfalle e le api.
Lì venivano a cercare nettare, cibo, pace,
non importa se quel giardino stava lungo la strada trafficata.
L’alta siepe lo isolava, era un’oasi verde nel grigio cittadino.

Aveva tagliato l’erba, scattato foto di piante nate dalle sue mani.
Ora le osservava.
C’era anche quel fico relegato nell’angolo, stretto tra muretti, ricco di frutti dolcissimi che cadevano a terra appena maturi.

E il lillà. Una pianta d’altri tempi, ormai datata, come la signora che gliela aveva donata.
Un lillà bianco, profumato, penetrante e discreto allo stesso tempo. Si era inserito bene in quel verde.
Lei era molto orgogliosa che avesse apprezzato il suo prato, le ricordava gli anni suoi di bambina, era il fiore della sua primavera.
Poco lontano un glicine allungava insistente i suoi rami a riccio, pronti ad attorcigliarsi su ogni sostegno che incontrava.
Grappoli intensi e profumati, liberi avrebbero creato una siepe impenetrabile e richiamato api a volontà.
Le ricordava i pergolati della sua infanzia, quelli che aveva visto
nei cortili delle case signorili.
La pergola profumata era un tempo un ornamento diffuso ormai passato di moda ma nel suo cuore le mode non esistevano.

E il phyrus spinoso! Pochi rami legnosi che si riempiono di rosa carico ai primi tepori di febbraio, annunciatore di una nuova stagione, di una rinascita irrefrenabile!

“Ah! La vita” si disse mentre deponeva i guanti infangati da giardino. E carezzò le foglie profumate della salvia.
Prese poi la scala e la avvicinò all’albero di cachi.
Aranciati frutti pendevano abbondanti dai rami, stagliandosi nitidi contro un cielo color cobalto.

“Anche l’autunno ha le sue bellezze! “ pensò “ e le sue dolcezze”.
Raccolse uno ad uno i frutti e li depose nelle casse, a uno strato, perché terminassero la maturazione.
Non si arrampicò del tutto,
lasciò parte di quell’abbondanza sull’albero.
Lei sapeva che sarebbero stati un dono per gli affamati uccelli
d’inverno.
Neri e golosi, agganciavano la polpa con le tenere zampette gustando il dolce sugo.
“E’ un Eden” pensò e sorrise nell’aria fresca piena di lunghe luci e ombre dell’autunno.

Bassano, 19 ottobre 2016

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