Il Natale di oggi, il Natale di ieri

 

Qualche giorno prima di Natale sono andata ad acquistare dei biglietti di auguri. Abitudine ormai desueta: tutto funziona via sms, nemmeno più le mail tirano tanto! Meglio messaggi istantanei, sei con tutti, dappertutto, in ogni momento e non hai neppure il tempo fisico di leggere, quello interiore di metabolizzare, quello dei ricordi di riaffiorare.

La negoziante mi mostra una serie di biglietti, le chiedo i più semplici possibili ma abbastanza grandi per scriverci su quel biglietto, di mio pugno, non solo apporre una firma.

Titubante nella voce e nella postura, con voce sottovoce, lei: “ Anche a tema religioso?”. Pareva mi proponesse l’acquisto di materiale proibito da smerciare sottobanco.

In quel preciso istante mi sono resa conto della sparizione del senso del sacro nella nostra vita e società, della invadente presenza di un laicismo totale in nome della “ libertà” di espressione di ciascuno.

La mia voce si è alzata involontariamente di tono e si è accesa di colore: “ Certo, voglio proprio quello a tema religioso!”.

E che altro posso inviare come messaggio augurale? Palle colorate, ghirigori argentati, sul vuoto assoluto dello spirito?

 

Ho rivisto d’improvviso i miei Natali di bambina.

L’attesa era trepidante, per tanti motivi. Si doveva allestire il presepio e la priorità era cercare il muschio. Compito di noi bambini: ci si copriva ben bene, erano inverni gelidi quelli e nemmeno eravamo attrezzati come oggi per affrontare il freddo. Maglioni e cappotti e guanti di lana che si bagnavano appena toccavi un sasso o l’erba brinata.

Si andava nei boschi, lungo le muraglie di sasso, sui tronchi degli alberi. Sapevamo dove il muschio era più denso e più spesso, più alto e più facile da togliere. Si staccavano con le mani le zolle, “ slepe” di terra dura coperta di verde. Si cercava il muschio più elaborato perché, a ben guardare, ce n’erano di tipi diversi: alcuni parevano una miniserie di alberelli, altri di fiori. Altri avevano in sé tracce di pianticelle il cui seme era lì caduto e avevano germinato. Certi pezzi avevano, intrecciati col verde, resti di foglie secche che rendevano variopinto il tappeto.

Si riponevano nel cesto con grande delicatezza perché quei tappeti così riccamente ricamati non si spezzassero. Poi con quel cestone grande, di “ strope” intrecciate, si andava verso casa. Lo portavamo in due , mia sorella ed io, con le mani che gridavano dal gelo, sentivamo i “ diaoleti” su ogni dito. Li avremo scaldati una volta arrivati a casa mettendo le mani quasi sulla stufa, così arrivavano i geloni a gonfiare e illividire la pelle. Ma la gioia era grande, non aveva prezzo. La ricerca durava qualche ora, saltavamo da un campo all’altro, dentro un fosso, sopra la riva, superavamo “ la valle”, quasi capretti al pascolo.

Deponevamo il muschio con ogni riguardo su cassette usate per la raccolta delle ciliegie, rovesciate e ricoperte di carta crespa verde. Lasciavamo che il tepore della casa asciugasse la brina e l’umidità. Ogni tanto andavamo a toccarlo, bramose che fosse finalmente asciutto. Il bello doveva ancora venire! Intanto avevamo recuperato dalla soffitta le scatole da scarpe con dentro le statuine degli anni precedenti.

Giacevano avvolte nella carta da giornale. Con lentezza la toglievamo mettendola a terra. Uno dopo l’altro nascevano a vita nuova i personaggi. Li osservavo uno ad uno: si era rotto? Aveva perso colore? Come stavano? In realtà non erano statue ma persone vive sulle quali anno dopo anno intrecciavo delle storie. Finalmente arrivava mamma col suo : “ Ora si può”.

Aveva ragione! Le statuine erano di gesso e col muschio bagnato si sarebbero rovinate soprattutto Il Vecchio Simeone. Era l’unico di cartapesta, la tunica rosso – ciclamino e il sovra tunica violetto. Simeone andava deposto quando il muschio era proprio asciutto.

Prima con la farina e col “giarin” bianco segnavamo le strade, creavamo il paesaggio.Poi cercavamo il posto per il laghetto di carta stagnola, lì avrebbero nuotato le paperelle gialle. Il ruscello col ponte su cui passava lo zampognaro: sulla riva avremmo posto il pescatore, la massaia col fagotto dei panni da lavare, la casa col mulino, il contadino col sacco sulle spalle, che ne usciva.

E la capanna? Un misto di legni e muschio e cartone, abbastanza grande da contenere i 5 personaggi immancabili in un presepio: Giuseppe, Maria, il Bimbo Gesù, il bue e l’asino. Questi li mettevamo a ridosso del bimbo immaginando che il loro alito lo potessero scaldare meglio.

Lavoro difficile era appendere la cometa e l’Angelo sopra la capanna. Dovevano restare stabilmente sospesi per un bel periodo. Alle spalle del presepe incollato al muro, avevamo già posto un cielo azzurro – notte, costellato di stelline. Sullo sfondo, sulle alture fatte da sassi e “ stele”, si stagliavano i palazzi della città, in contrasto con i prati e la campagna.

Ogni giorno a rimirarlo: inginocchiata a osservare i personaggi, a immaginare le loro azioni, li spostavo a confermare il fatto che erano vivi e che avevano camminato.

I Magi comparivano dopo Natale, messi sui bordi, lontano dalla capanna. Erano gli unici personaggi che potevamo spostare, ogni giorno un pochino, fino ad arrivare nel giorno dell’Epifania proprio davanti al Bambin Gesù.

Finché c’era il presepe alla sera ci si inginocchiava per recitare le preghiere prima di andare a dormire. Lo si protraeva il più possibile. Poi arrivava il momento, un po’ triste, in cui si doveva smontare ogni cosa. Le statuine ben avvolte nei fogli di giornali dentro scatole, il muschio ora secco nel campo dietro casa e già si immaginava l’anno successivo: avremmo aggiunto qualche pezzo, allungato la base di appoggio, messo le luci, una palma, un dromedario.

In negozio ci avrebbero aspettato fino all’anno dopo.

 

 

 

3 pensieri su “Il Natale di oggi, il Natale di ieri

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