Mio padre e la guerra

Mio padre, classe 1917, si è fatto la seconda guerra mondiale. E’ andato in Sicilia, in Piemonte, In Istria, per finire prigioniero in Germania.

Il suo Maggiore era un omone grande e grosso che ci ha tenuto a farci conoscere e col quale ogni tanto si vedeva.

Di sicuro si son voluti bene, quasi come padre e figlio.

Era un uomo carismatico, forte, onesto, tutto d’un pezzo che ci teneva molto ai suoi soldati. Curava che avessero cibo a sufficienza, mangiava con loro, come loro, agiva da superiore ma con senso protettivo.

A mio padre affidava compiti di fiducia. Anche suo figlio, di un anno più giovane di mio padre.

Quando entrò in guerra, Il Maggiore lo affidò alle cure di mio padre. E mio padre mantenne l’impegno fino a cadere prigioniero lui per salvarlo.

Era l’8 settembre 1943. Erano in caserma quando arriva la notizia ; “ Scappate” e via tutti i soldati a gambe levate.

Mio padre era forse in salvo quando si accorse che mancava Renzo. Tornò indietro in caserma a cercarlo e fu così che venne preso e portato prigioniero in Germania in campo di concentramento. Renzo invece si salvò.

Tuttavia rimasero legati da salda amicizia fino alla morte di mio padre e poi Renzo restò legato a noi suoi figli fino alla sua propria morte. Quasi fratelli.

Carattere di mio padre ma anche affetto filiale che aveva per il suo Maggiore.

Ce lo fece conoscere. Andai con lui, sul “ motom” rosso per incontrarlo. Lui era un omone robusto; sollevò mio padre quasi fosse un fuscello e sì che mio padre era alto più di 1.80 m.

Si abbracciarono con una intensità che mi fece capire quanto la guerra li avesse uniti e saldati nel cuore.

Aveva una moglie piccolina, dolcissima, che amava la musica: volle che ci suonasse un brano per pianoforte. Si vedeva quanto lui amasse quella “ donnina”.

Mio papà ha portato a casa dalla guerra la pelle e il corpo intero, anche la sua mente e il suo intelletto.

Un fortunato diciamo.

A noi bambini raccontava episodi di una storia più grande di noi, lo ascoltavamo senza penetrare a fondo la pienezza del suo narrare.

Capivo però che in lui c’era un tumulto di esperienze, di emozioni, di sconvolgimenti che desiderava condividere. Forse per rielaborarli, forse per trasmettere insieme alle informazioni anche sapienza. Perché quanto avvenuto non cadesse nel dimenticatoio, senza lasciare traccia.

Non facile riuscirci soprattutto se il pubblico era bambino, come eravamo noi figli.

Era anche un suo modo di intrattenerci: noi chiedevamo storie, volevamo racconti, magari avventurosi e da suspense.

Papà sceglieva ricordi accessibili per noi. E non troppo dolorosi.

Ci raccontava del Monte Nevoso, di Fiume, con grande nostalgia nella voce e nel cuore.

Erano stati per lui luoghi di guerra in cui aveva sperimentato però anche tanto affetto.

Le donne del paese, vecchie da sempre, coi lunghi vestiti neri, si prodigavano per questi giovani soldati: preparavano loro da mangiare qualcosa di speciale, lavavano e stiravano i vestiti. Vedevano le loro necessità di giovani in guerra, capivano la nostalgia di casa che riempiva i loro cuori e cercavano di colmarla.

Colmavano in questo modo anche la nostalgia per i propri figli , in guerra pure loro e lontani.

Qualcuna lo diceva : “ Noi aiutiamo voi e speriamo che anche i nostri figli vengano aiutati, da altre “ mamme”.

Il desiderio, mai realizzato, di tornare in quei luoghi di guerra lo accompagnò sino alla fine.

C’era tanta tenerezza quando ci parlava di quelle donne straniere che parlavano la sua stessa lingua, che facevano da madri a ragazzi stranieri.

Era la guerra sì, ma dei “ potenti”. La gente, quella conosce solo i bisogni di fame, affetti, casa, lavoro.

Chi erano i nemici?

Più volte ci raccontava della sua esperienza in Germania, nei campi di prigionia.

Lui era stato internato a Buchenwald prima, poi trasferito a Mauthausen, nei campi di lavoro, dopo essere stato fatto prigioniero l’8 settembre 1943.

Grazie all’umanità di un interprete venne suggerito a lui e ad altri prigionieri italiani di dire, durante gli interrogatori, che erano sposati con prole. Così abbandonarono presto Buchenwald e vennero avviati ai campi di lavoro.

Ci ripeteva una frase che aveva imparato suo malgrado: “ arbeit macht frei” e ce la traduceva. “Il lavoro rende liberi.”

Evidentemente aveva del carisma perché venne scelto dai suoi compagni come loro rappresentante in ogni cosa che li riguardasse: dalla gestione del gruppo ai rapporti con soldati delle SS. che si occupavano del campo.

Fu così che ottenne di avere delle tende solo per loro italiani, lui però doveva garantire ordine, pulizia e igiene.

Anche negli anni seguenti mio papà restò molto legato ai suoi compagni di prigionia e li andava a trovare se non abitavano troppo lontani e viceversa loro venivano a casa nostra a salutare, a fare una rimpatriata.

Per lui erano persone che avevano condiviso fame e patimenti e paure, legate tra loro quasi da un vincolo di sangue, delle quali in qualche modo lui si era preso cura durante il tempo della prigionia.

A lui infatti spettava lo sgradito compito di presentare “ lamentele” sulla qualità e quantità di cibo, rendere meno drammatico l’internamento eppure non scontrarsi con le SS. Stava a metà strada tra i prigionieri, di cui condivideva la sorte, e i tedeschi, il nemico.

In che lingua parlasse Dio solo lo sa. Aveva la licenza di scuola elementare, aveva imparato lì, nel campo, a dire 4 parole di tedesco, quelle che servivano a farsi capire.

Pian piano si guadagnò la fiducia e la stima dei soldati tedeschi del campo, in particolare di un architetto che gli propose di uscire dal campo stesso per svolgere dei lavori nelle abitazioni civili.

Anche le case e i paesi tedeschi erano stati bombardati.

Era un gesto di grande fiducia. Una volta uscito avrebbe potuto fuggire o almeno provarci.

Invece usciva al mattino e tornava a sera col vantaggio però di portare ai suoi commilitoni qualcosa da mangiare. Le donne per le quali lavorava come muratore, falegname, vetraio, vedevano la sua fame e di nascosto davano cibo.

I tedeschi che aiutavano i prigionieri non erano tollerati e rischiavano seriamente la morte.

Un particolare mi ha sempre colpito dei suoi racconti di guerra.

Per un Natale, ora immagino fosse del 1944, riuscì attraverso il baratto a farsi dare da un pastore un agnello. Come se lo sia portato al campo di nascosto e poi cotto , non ricordo.

Ma il suo gruppo poté festeggiare la Natività in modo speciale. Anche l’architetto , che lo chiamava Dal Cielo, e sua moglie, condivisero la cena con loro prigionieri.

Di quel giorno aveva pure una foto, un Natale in prigionia. Bianco e nero. Nel mostrarla mio padre aveva gli occhi lustri, avevano cantato tra loro canti natalizi, in qualche modo avevano “ sentito casa” ed era grato ai tedeschi che lo avevano permesso.

Forse perché lui conobbe non solo SS. ma anche gente del popolo e toccò con mano la loro umanità, non conservò rancore verso di loro, non ci inculcò l’idea che il “ tedesco” fosse “ il nemico”.

Eppure di episodi drammatici e terribili ne vide tanti e non solo in Germania, anche nel suo paese, la rabbia di chi “ uccide 10 persone per ogni soldato tedesco morto”.

Ancora bambini, ci accompagnava a volte in cimitero sulle tombe dei suoi zii , a salutare, a portare fiori.

Zii che lo avevano allevato, fatto da padre e madre.

Però, prima di andare su queste tombe, ci portava su una tomba speciale, aveva solo la croce, nemmeno il nome, nemmeno una pietra a segnarla. Era piena di erbacce che noi ripulivamo prima di mettere i fiori nel vaso che lui aveva portato.

Era la tomba di un ignoto soldato tedesco, ucciso quando la guerra stava finendo, durante la ritirata.

Si era nascosto in un fienile, forse aveva perso i compagni, si era preso tardi e i partigiani lo avevano scoperto e ucciso. Venne sepolto in forma anonima.

Noi bambini chiedevamo notizie di questo morto “ non nostro” per il quale lui aveva tanta attenzione e affetto.

Mio papà diceva: “ Anche lui ha una mamma, un papà che lo piangono, che non possono portargli un fiore. Noi dobbiamo aver cura di lui al posto loro, come fossimo la sua famiglia”.

Era giovane, era tedesco, era morto e non era nemico.

Per questo, pur inorridendo di fronte agli eccidi perpetrati ai danni di milioni di ebrei, non coltivo odio né rancore.

Mio padre ci ha mostrato sempre il volto dell’ umanità della gente comune.

Di qualsiasi nazione, sono tutti uomini e donne, genitori e figli, bambini e adulti, che possono comprendersi, aiutarsi e convivere.

Venne liberato nel maggio del 1945, mollato con, forse, un biglietto per salire sul treno che lo portava in Italia e nulla più. Nemmeno una parola, un pezzo di pane, una informazione. Venne semplicemente mollato, libero, con tanta paura addosso.

Arrivò in Italia il 18 maggio.

In due giorni sua madre abbracciò ben 5 figli, portati dalla guerra in giro per l’Europa, tornati sani e salvi.

La guerra: un male tutto umano, un male evitabile.

Dimmi cosa ne pensi, te ne sarei grata.

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