Era inverno pieno.
La luce scorreva nel cielo per spazi di tempo sempre più brevi, il sole tardava a spuntare, pareva immerso nella pigrizia del freddo anche se, al primo tocco di aria fresca, arrossiva di stupore e piacere illuminando l’intero orizzonte.
Rinvigorito dal gelido soffio di tramontana, si alzava scaldando i suoi muscoli, diffondendo il calore intorno a sé. Poche ore sufficienti però per far uscire dal letargo stagionale animali impellicciati e uomini imbottiti in calde vesti.
Il suo arco era corto, ben presto si inabissava nel Regno dell’Ovest, andava a scaldare altre genti, altri mondi.
Andandosene salutava agitando le mani a forma di raggi, inondando d’oro e di rosso il cielo, per dire: “A domani!”
E subito l’ombra scendeva, rapida, a braccetto col gelo notturno e il mondo diventava inanimato. Tutti cercavano riparo nelle proprie tane o case.
….
Giovanni e Chiara avevano già svolto gli involucri racchiudenti un mondo in miniatura, scolpito secoli addietro. Li avevano trovati, a sorpresa, in una vecchia abitazione di cui rimanevano poche tracce murarie, abbandonata anche da volpi e donnole.
Loro abitavano nel regno di Natura, ove casa era la capanna di legno, fontana il torrente, cibo le verdi erbe e i succosi frutti di boschi e prati. Anche le vesti erano intrecciate con fibre d’erbe e fili di lana grezza raccolta tra i rovi.
Giocando e vagando tra silenziose radure e ombrose foreste avevano scoperto questi sassi, avvoltolati da radici e rami fronzuti, inabissati quasi dentro una buca.
Erano bambini curiosi e allegri, la fantasia in loro galoppava come le veloci gambe che percorrevano distanze prodigiose.
Scavarono frementi, sasso dopo sasso fino a che le piccole mani giunsero a una strana porta. Oltre non potevano andare, da soli. Corsero da mamma e papà, a raccontare, a chiedere aiuto. Insieme tornarono al luogo segreto.
Le robuste braccia dei genitori spalancarono infine la porta con grande fatica.
Apparvero tracce di vita antica di cui non avevano più memoria nemmeno gli adulti.
Scatole colorate, impolverate, ancora intatte. Mani leggere e curiose le scoperchiarono una ad una. Apparvero uomini e donne, pecore e case, stelle e alberi, tutto finemente lavorato da chissà quale artista.
Con stupore e gioia immensa trasportarono delicatamente tutto nella loro capanna.
Insieme tolsero paglia e foglie, riordinarono i vari pezzi disponendoli con cura sul pavimento di terra.
Un raggio penetrò tra i rami del tetto illuminando la capanna e una Voce risuonò, forte e decisa:
” Fuggite, fuggite sul monte, cercate la LUCE, fuggite… fuggite l’Erode”.
Miriam e Giuseppe si guardarono stupefatti interrogandosi l’un l’altro con gli occhi.
Giovanni e Chiara invece non avevano inteso la voce, bensì una musica, ma così bella e così nuova da accendere i loro musetti di gioia.
Le mani di mamma e papà si intrecciarono strette, una luce improvvisa aveva illuminato le menti risvegliando ricordi assopiti. Le antiche storie, raccontate di generazione in generazione, ora rivivevano nitide. Miriam e Giuseppe sapevano, con sapienza nuova, ciò che era stato seppellito nelle profondità dei secoli.
…
Tanto, tanto tempo prima, la tenebra era scesa sul mondo. Le parole papà, mamma, figlio, erano state cancellate dal linguaggio, divenuto reato da punire il pronunciarle. Anche la parola amore era stata proibita e abbandonarsi a quel sentimento era sintomo di una grave malattia. Ribellione e disobbedienza civile, in un mondo totalmente sano, erano le uniche due malattie sopravvissute dai tempi antichi e mai interamente debellate.
Molto simili, difficile a volte distinguerne i sintomi. L’una poteva nel tempo tramutarsi nell’altra. Forse erano due varianti di una medesima malattia, ad alta contagiosità. Avrebbero potuto diffondersi su tutto il pianeta, per questo andavano tenute d’occhio, per coglierne da subito i segnali. Uno dei più evidenti e gravi era il sorgere del desiderio di un figlio in nome dell’amore.
Poiché non c’erano medicine per sradicarle, non restava che prelevare l’ammalato, portarlo in un ambiente protetto, custodirlo in attesa che avvenisse la totale conversione della sua mente. Segno certo dell’avvenuta guarigione era sentire e vedere il malato, perfettamente felice, stringere tra le braccia un surrogato di bimbo, costruito in uno dei tanti laboratori sparsi sulla terra.
Per questo Miriam e Giuseppe erano dei ricercati nel loro mondo: si erano innamorati, scambiati promesse d’amore ed entrambi volevano figli nati dal loro legame. Per questo erano fuggiti. Abbandonato il sofisticato mondo tecnologico nel quale erano nati e vissuti, avevano imparato, giorno dopo giorno, a vivere con ciò che il regno di Natura offriva loro. Uno dopo l’altro erano nati Giovanni e Chiara, cresciuti spensierati tra i boschi, senza alcuna conoscenza o esperienza dell’altro mondo.
Adesso però i due giovani compresero di dover fuggire ancora una volta: tanti Erode percorrevano il mondo alla ricerca di bimbi, in carne ed ossa, nati da uomo e donna.
La Voce aveva dato una indicazione: dovevano cercare la Luce, solo così avrebbero potuto salvare le figlie e sé stessi. Il messaggio era colmo di fretta, dovevano andarsene svelti, scappare senza lasciare tracce.
La notte scese profonda, i bimbi dormivano nei caldi pagliericci. Babbo e mamma prepararono due piccoli fagotti. Il regno di Natura era amico, lo conoscevano, avrebbero trovato il necessario lungo il cammino.
Giuseppe e Miriam quella notte riposarono poche ore, abbracciati come non mai per darsi forza e coraggio. Il domani sarebbe stato faticoso.
Quando il sole si alzò, mostrò un volto pallidissimo. La nebbia lo avvolgeva smorzandone colori e calore, frenando la gioia con cui era solito apparire. Fu un segnale per loro. Svelti, rifocillati col latte di capra e un pane, cancellata ogni traccia della loro presenza partirono diretti verso la montagna. Durante la salita sbirciavano di tanto in tanto la pianura: la nebbia strisciava pesante, avanzava, lenta e ingorda, mangiandosi tutto ciò che incontrava.
Giovanni e Chiara camminavano svelti, felici e ignari, oggi andavano a cercare la LUCE, una nuova avventura tra le tante che vivevano con mamma e papà.
Il sole si alzava lento, era di un pallore mortale. Il freddo glaciale avanzava. Ogni tanto, senza fermarsi, masticavano un frutto, una radice, una foglia, bevevano un sorso dal torrente che attraversavano. Lungo il cammino non avevano fatto alcun incontro, d’altra parte Giuseppe conosceva quei luoghi come le proprie tasche, sapeva quali sentieri percorrere senza incrociare viventi. Era ormai pomeriggio tardo, dall’alto della montagna vedevano le porte del Regno dell’Ovest aprirsi per ingoiare il Sole pronto a inabissarsi. Finalmente giunsero sull’alto crinale. Lingue di grigia, densa nebbia sfioravano i fianchi del monte, spariva sotto di loro ogni traccia di mondo, tutto pareva impalpabile, freddo, grigio cupo.
Il sole resisteva, lo vedevano anche Giuseppe e Miriam. Resisteva per loro, voleva vederli giunti alla meta. Ill suo volto era rosso -viola per la fatica, la nebbia ne copriva gli ultimi raggi, appeso sull’abisso, non voleva quella sera cadere. Nel preciso istante in cui sfondò le porte del Regno dell’Ovest, nel pieno dell’oscurità apparve la LUCE: immobile sopra una capanna, assomigliava tanto a quella che avevano quel mattino abbandonato. Chiara e Giovanni scattarono come lepri arrestandosi di botto sulla soglia, non c’era neppure la porta. Sulla paglia un neonato, tra mamma e papà. Una famiglia, una vera famiglia. La LUCE li avvolgeva, come un manto proteggeva l’Amore, riflettendosi in ogni direzione disorientava tutti gli Erode, impazziti vagavano nel buio profondo. Il cielo quella notte era sceso sulla terra.