prefazione e recensioni
LA FORZA DELLE RADICI
di Gian Domenico Mzzocato
Uno scrittore che non ha una ferita sempre aperta,
per me non è uno scrittore.
Magari preferisce tenerla nascosta, perché è orgoglioso,
perché non vuole farsi compatire; ma deve averla.
(Elias Canetti, Il cuore segreto dell’orologio)
Tratta il mio cuore così / come fosse un barattolo
Lo fa girare qua e là / senza nessuna pietà
(Gianni Meccia, Il barattolo)
Ci eravamo fatti attenti dopo la poesia/preghiera dell’ultima silloge della scrittrice bassanese. I giorni e l’ombra ci offrivano una immagine tormentata, una ricerca di pace nel confidente reclinare il capo dentro ad un consolatorio abbraccio. Colpiva, di quel pregare, la tensione e il desiderio di mettersi in dialogo.
La preghiera, si sa, è per sua natura unidirezionale, cammina da chi la fa a chi ne è il destinatario. Procede in vario modo, ma è a senso unico. La forza di quella preghiera di Silvana Dal Cero era nel chiedere perentoriamente un “ritorno”, una dialettica. Insomma un doppio senso di marcia. Quasi a dire: io chiedo, voglio una risposta. Quel voglio innervava tutto il discorso poetico.
E quel voglio torna in veste nuova (verrebbe da dire: più scintillante, più colorata. O, se si preferisce, meno dimessa) in questa silloge.
Con un procedere che richiama stilemi diversissimi e lontani (dalla lapidaria solitudine degli haiku giapponesi allo stupore pascoliano che legge il magmatico farsi degli eventi naturali) l’autrice si fa onda e indaga.
Un ovunque, un sopra e sotto, un di fianco e di lato. Elenca: tenace ulivo / stella inesplosa / nera civetta / bianca farfalla. Aggettivo e sostantivo, il più semplice dei sintagmi, quello che non ha bisogno di predicato verbale perché si esaurisce già tutto nell’oggetto visto e posseduto. Nella visione, nel fotogramma, nel film. Si sostanzia in quel dentro/fuori che è la corteccia/corpo. Immagine mirabile che fa una cosa unica dell’involucro e del contenuto. In ultima analisi di significato e significante (allampanate immagini/dei miei respiri).
Sculture a tutto tondo: Non vedo il sentiero / sospeso com’ è il piede / sul caigo denso e bianco (caigo, con l’accento sulla i, è bellissima parola che la lingua veneta mutua direttamente dal latino e vale, ma con molta più forza, nebbia).
Danze fisiche e letterarie insieme: Oscilla la foglia/con lento / ruotato / movimento. / Cadrà come apostrofo posato male / sulla lettera sbagliata / come un accento darà senso nuovo / là dove si posa.
Tic, toc, ore scandite: Nell’orologio di luce / l’ora di fiorire è giunta.
Voglia di andare, di tirar su l’ancora e sciogliere l’ormeggio: gli stessi sogni bussano / al cuore mai ormeggiato. Dove? Da un’altra parte l’autrice suggerisce che sull’isola ci son le fate.
Straniamenti assoluti: L’occhio è rapito / da un papavero rosso. / Si erge sul verde. / Immenso.
Voli e decolli spericolati: Cerca il piede / il punto d’appoggio aperto al cielo / cupola aperta ai sogni / su ali d’aquila.
Eccetera, il catalogo potrebbe continuare. Perché è catalogo ampio, retto da immagini che valgono le colonne di un tempio: sostengono, invitano, rassicurano. Indicano il percorso da seguire, come le navate delle chiese gotiche: il rosone che filtra la luce alle spalle, la scalinata dell’altare davanti. Talora il tempio si fa foresta (Rami su rami chinano il volto / riparano i frutti sempre vivi / di una inesausta primavera).
Che pare immagine bella. Conclusiva, complessiva e paradigmatica. La vita riserva sempre primavere, offre sempre la possibilità di una vita nuova. Uguale e diversa, ad un tempo, dalle forme di vita che c’erano prima.
Contano i filtri, l’intelligenza, lo sguardo e gli sguardi. Dal Cero conosce le stagioni del dolore e della solitudine. La sua forza sta nel far fiorire la solitudine, nel tessere la trama e l’ordito del dialogo. Chi c’era continua ad esserci, a vivere.
Ricetta semplice e tuttavia inimitabile. Perché salgono i ricordi / affiorano / come il bianco ciliegio / dalla nuda terra. Le radici non conoscono ostacoli. A primavera si fanno sempre vive.
Treviso, ultimi giorni di marzo 2017
RECENSIONE DI GIULIANA PIOVESAN NOVENTA
Qualcosa sfiora, accarezza, taglia. Un richiamo.
L’incontro con il testo di Silvana Dal Cero è avvenuto.
Un’esplosione panica. Vitale, forte, profonda. A colori intensi, materici.
Come in una navicella mi accoglie l’incavo di quest’albero, dove tutto fiorisce e risale
alla corteccia. E cerco di salvare dall’impeto delle acque questo prezioso taccuino.
Non so nulla di questo viaggio e voglio scrivere, non conosco le cose che incontrerò e desidero fermarle nella mente, nella pagina.
Laggiù, dove tutto è vivo e protetto nascono tempeste che non sfiorano una primavera stremata, ma ancora zampillante.
Fragili folletti, preservati dal ghiaccio, sono in scena per ridare vita a un gioco sospeso d’improvviso.
Un fluido fermo immagine, come tutto è fluido nella navicella poetica qui raccolta.
E confonde sempre quell’unico giorno d’estate, quell’ora prima della vita.
Il caos, l’impeto, la furia si placano. E rilasciano quel profumo di vita che è un suono, un richiamo, quasi un sottile squillo di tromba. Un primo annuncio di rinascita. Un soffio argentino, il calicanto.
Il tempo. Il tempo che attraversa il fiume e corre verso il mare. L’acqua, la donna, la vita. In continuo divenire. Il dito nell’acqua che scorre … ( E’ quieta l’acqua che scorre ? Come può ? )
Né il bianco né l’oro … Appartengono a un mondo perduto, di cui l’arcobaleno è l’unica traccia, quella che comunque conduce alla meraviglia, il mondo dei colori e del calore, la creatività.
Ma nel giardino segreto come s’arriva ?
Nel sogno, solo nel sogno si può ritrovare il giardino antico. Nell’immaginazione.
Tra voci che narrano di vita e di morte Tu vivi. E non so… come stremata tu resisti.
E nell’impetuosità e nella velocità del mutamento si disperde e si raccoglie l’acqua della vita, come una preghiera. In un gesto antico e sacro che solo le mani ricordano.
In questa avida e inesausta tensione alla vita, in questa panica immersione nella natura una sorgiva e intatta sensualità respira, sfiora, accarezza …