Lucilla ora aveva solo una strada davanti a sé.
Qualcuno gliela aveva disegnata e posta lì davanti e lei non aveva scelta.
Ci aveva lavorato a lungo, anni, ogni giorno aveva posto un mattoncino per piastrellarla e renderla visibile.
Ora tutti avevano firmato, anche lei. Davanti al notaio, ognuno aveva una espressione diversa: soddisfazione, rimpianto, dispiacere, sorriso.
Lei non aveva lo specchio per guardarsi. Cercava di immaginare lineamenti e sguardo ascoltando la voce interiore.
Il Deserto dei Tartari finalmente si era popolato, l’immobilismo era finito e ora rotolava avanti un’orda, non di nemici, no. Di sconosciuti.
Ai quali non era preparata.
Tutti gli anni di allenamento trascorsi a immaginare, a osservare l’orizzonte fermo sotto il sole, le avevano disegnato dentro la mente una linea fissa, ora improvvisamente mutata.
Firmò, come tutti gli altri.
Sentì la sua mano più calda, quasi le si fosse posata sopra un’altra mano.
Guardò la sua ombra sotto il neon: le pareva sdoppiata.
Come di due persone vicine vicine.
Si sentì molto sola in mezzo al vociare ora rilassato. Il passaggio era avvenuto, nessuno lasciava su quei muri brandelli di sé, della propria vita.
I loro giorni erano sfilati in altri paesi, in altre stanze.
La sua invece rimaneva in parte appiccicata alle dure e pesanti persiane di legno che al mattino faticava ad alzare. Ai soffitti alti più di tre metri che a malapena riusciva a spolverare. Ai muri che si scrostavano : chiedevano una mano di colore sempre rinviata. Anche il porticato la chiamava. Era divenuto un ripostiglio vivente nel quale bivaccavano moto e bici vecchie e arrugginite, attrezzatura teatrale che non aveva trovato una locazione migliore. Il dondolo laccato bianco era spoglio del morbido materasso e segnato come rughe di un volto da macchie rosso ferro. Eppure conservava traccia dei corpi che lì si erano rinfrescati tra l’ombra e il verde e le lanciava un richiamo di pomeriggi assolati.
Lo stesso giardino la imbrigliava come le tenaci radici aeree dell’edera. Non aveva mai finito di liberarlo da erbe infestanti, chiedeva mani sempre più forti e spalle robuste , magari per essere vangato e dissodato.
E riseminato.
Il cancello azzurro le strizzava l’occhio, come un gatto che si accoccola a far le fusa.
Ma non era più tempo ormai. Nel libro erano cadute tutte le foto e i nomi, e pure le voci. Quel libro lei lo aveva messo dentro uno scatolone sigillato con nastro adesivo atto a chiudere pacchi. L’avrebbe seguita nella nuova casa. Ma chissà se lo avrebbe riaperto. Quel qualcuno che aveva preparato la strada, un giorno le avrebbe detto: “ Aprilo!” e lei sul divano di un altro salotto, avrebbe sfogliato il libro, pronta all’ascolto. Forse.