La Farnia o La porta dei sogni

C’era dietro casa, lungo la stradina che portava in località Pasquaro , una Farnia bellissima.

Era molto alta, si distingueva dagli altri alberi, tutti ciliegi e viti , della campagna intorno, e dagli arbusti e rovi che cingevano i bordi.

Svettava sopra una piccola altura, ma davvero piccola, quasi come il Colle dell’ Infinito di Leopardi.

Lei era là, sola, vedetta che separava il mondo abitato da quello dei miei sogni.

Se appena salivo quel dosso e scendevo dall’altro lato, alle spalle mi restavano la via, le case, i campi coltivati , tutti luoghi frequentati da uomini e donne che ci passavano per lavoro.

Davanti a me, guardando a sud, si apriva una valletta, il Pasquaro appunto, basso, umido e sul fianco lo cingeva un boschetto. In lontananza altri monti più alti, colli sempre, o verso est, campagna piatta. Ma quello che a me interessava era quell’angolo di mondo dove nessun altro veniva tranne me.

Mi sedevo, a volte mi acquattavo tra le stoppie, la riva era arida, ricordo ancora l’odore di stoppie calde d’estate, di foglie umide e muschiose in autunno, l’aria strina invernale, ma sempre ci batteva il sole, poco o tanto, tepido o scottante.

Mi appoggiavo al tronco e mi sentivo libera. Quasi scoperchiassi il vaso di Pandora che avevo dentro e il pensiero viaggiava lontano.

Mi ridestava un guizzo tra l’erba secca e mi spaventava: una serpe? O il ronzio amico di api e calabroni e farfalle brulicanti. Giravano intorno al mio viso, quasi fossi io stessa erba tra l’erba. Non disturbavo il loro habitat.

Andare dalla Farnia era entrare in un altro mondo di cui conoscevo le regole: il silenzio, l’ascolto, il guardare attento, il respirare leggero, il lasciarsi galleggiare in quell’atmosfera così viva e immobile nello stesso tempo.

A volte soffiava il vento ma a lui era permesso entrare. A volte era una semplice carezza, improvvisa e furtiva, quasi un “ciao ragazzi”, altre volte era buferoso e forte , prometteva maltempo.

Allora le foglie della Farnia prendevano vita e si squassavano tutte, con rumori diversi a seconda delle stagioni: se erano verdi risuonavano in un modo, se secche, in un altro, se rade e sparse, le ultime, appena un dondolio.

Appoggiata alla ruvida scorza sostavo e il tempo fuggiva, ne perdevo il ritmo, mi riempivo polmoni e testa di nuova energia.

Quel tronco era la porta che io varcavo per cercare me stessa, entrando in altra dimensione, affrontando un nuovo mondo.

La Farnia era la forza, il “ ci sono” della Natura che mi accoglieva a braccia aperte quasi fossi io stessa fiore o libellula.

Tornavo rinata e scattante, ero andata alla fonte della vita.

la-grande-quercia-3

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